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venerdì 11 luglio 2014

STATO E RAGIONE ECOLOGICA. PER LA CRITICA DELLE POLITICHE AMBIENTALI (II), di Michele Nobile

Seconda parte
(pubblicata in Giano. Pace ambiente problemi globali n. 28, gennaio-aprile 1998)

Summary
This article deals with the discrepancy that lies in the political practices of social environmental movements, green parties and left-wing organizations, between the minimal programme and partial activism onthe one hand and the maximum programme and the hope for global change on the other.
This situation is partly  due to the lack of any realistic theory behind environmental policy and the State. The political positions adopted in this sphere are generally combinations of the «State to democracy» approach, the pressures it is subject to and the independent initiatives that prefigure the creation of an ecological society.
Both cases skirt the problem of the limitations of an environmental policy as such, and of stateness as the concentration of class power, avoiding thus the question of the limits placed by the capitalist State upon ecological rationality as defined by John Dryzek: negative retroaction, co-ordination, flexibility and/or strenght, resilience.
After looking at the potentially anticapitalist nature of environmental social movements and the origins of environmental politics in the general and multi-dimensional crisis of capitalist society in the late Sixties, early Seventies, the article moves on to make an analytic examination of the intrinsic limits of normative and administrative action in environmental politics.
Well known phenomena such as the divisions within environmental politics, the conflict of autorithy between institutional bodies and apparatus, the contradictions in different interpretations of the laws and implementation, applicative inertia, the gap between planned objectives and the means used to reach them, are not the result of dysfunction, but are axpressions of the limits of the State action in the environmental sphere. Such phenomena do not depend simply upon the influence of interest groups; they are inherent to the «rationale» of administrative activity due to the relative, reciprocal independence of State and economy - a distinctive structural feature of capitalism and the way class power is wielded. Together with the tendency towards global transformation into commodity and the exploitattion of capital, the limits of administrative action stand in the way of ecological rationality and undermine the very foundations of environmental politics.
The condition necessary for an international, ecological rationality is therefore the socialisation and integration of political will and of management of the resources and of the economic apparatus, that is to say, the maximum extension of the democracy in all the spheres and the circles of the social life.


L’impotenza strutturale di fronte ai problemi ecologici

I limiti del capitalismo nella capacità di soddisfare in modo adeguato i criteri della razionalità ecologica ed i motivi del costante riproporsi di problemi ecologici, nonostante normative parziali meditate e i successi di lotte specifiche, non sono interni solo alla sfera economica ed alla logica della produzione capitalistica, o dovuti agli interessi che potrebbero aver «colonizzato» e «strumentalizzato» la sfera politico-statuale. Essi sono sia economici che politici: risultano dalla specificità della dinamica economica capitalistica, dall'articolazione tra questa e lo Stato, dalla specificità dello Stato.
In una società capitalistica la natura conta solo in quanto inserita nel processo di valorizzazione del capitale, la cui condizione è che l'insieme delle risorse, tra cui lo spazio naturale in questione, sia sotto controllo privato, cioè non socializzato (il tipo di proprietà giuridica, privata, pubblica o mista dell'unità di valorizzazione è sotto questo aspetto indifferente). Inoltre, come sistema economico il capitalismo non si riduce affatto né mercato né al solo guadagno monetario. Ciò che essenzialmente lo distingue da precedenti società, in cui già erano presenti sia scambi di mercato che avidità di denaro, è la tendenza all'intensificazione della sussunzione reale del lavoro e della natura nel processo attraverso cui il capitale si valorizza, all’estrazione tendenzialmente senza limiti di plusvalore, all'estensione delle sfere sociali e naturali incorporate nella riproduzione allargata del capitale sociale. Non sono il mercato mondiale o gli imperativi dell'innovazione tecnologica ed organizzativa a fare i rapporti di classe ma, viceversa, sono questi, con le loro specificità storiche e geografiche, che determinano lo sviluppo ineguale e combinato delle forze di produzione, i caratteri fondamentali delle economie nazionali, gli orientamenti degli scambi commerciali e degli investimenti diretti, in sintesi il modo in cui si trasforma il sistema mondiale. Invertendo i rapporti di causa ed effetto si rischiano anacronismi storici e non verrà messa a fuoco la radice più forte e profonda dei problemi ai quali ci si riferisce nel presente.
La sussunzione della forza lavoro al capitale è già un rapporto e una gerarchia di potere. Ma la concentrazione del potere di disporre di una determinata quantità di lavoro altrui non retribuito nelle mani di capitalisti privati necessita, perché possa dominare l'insieme della formazione sociale, della distinzione dei poteri politici da quelli economici: l'autonomia relativa dell'economia e della statualità contraddistingue il modo di produzione capitalistico allo stesso modo della valorizzazione del capitale. Anzi, è proprio questa autonomia relativa (e quindi l'anormalità dell'estrazione di surplus a mezzo della coercizione extraeconomica da parte di privati) che spiega lo straordinario sviluppo delle forze di produzione nelle aree capitalistiche centrali, l'approfondimento, razionale nei mezzi ma irrazionale nei fini, del «dominio» sulla natura (con le conseguenze sul piano psichico e ideale), l'estensione planetaria dello sfruttamento imperialistico e la capacità di distruggere, o trasformare e funzionalizzare, forme sociali non capitalistiche (20).  Ed è a causa di questa configurazione del rapporto tra potere politico e poteri economici che è possibile lo sviluppo di una molteplicità di centri individuali di accumulazione (le cui transazioni costituiscono i mercati) e che le principali variabili socio-economiche sono regolabili solo a posteriori, nonostante la crescita delle interdipendenze sociali ed ecologiche su una scala inedita nella storia dell'umanità. La dinamica strutturale del capitalismo è tale che lo sviluppo delle forze di produzione comporta una parziale socializzazione della stessa natura (nel senso dell'impatto crescente dell'attività umana) mentre, e proprio per questo, l'autonomia relativa dell'economia e della politica impediscono il controllo sociale del ricambio organico con la natura. Alla gestione sociale del rapporto con la natura e, quindi, alla razionalità ecologica, si oppongono la concentrazione del potere politico nello Stato e la concentrazione del potere economico nelle imprese capitalistiche.
Invece di definirla sulla base di uno sviluppo autonomo e endogeno delle tecniche che, ad un certo momento viene ostacolato dai rapporti sociali di produzione, la contraddizione marxiana fra sviluppo delle forze di produzione e rapporti sociali di produzione può essere fondata sul contrasto fra bisogni sociali, da una parte, e direzioni di sviluppo prese dalle tecniche sotto il comando dei capitalisti privati e dello Stato e capacità di fronteggiarne gli effetti ambientali, dall’altra: qualcosa che implica la possibilità che le forze di produzione possono trasformarsi anche in forze di distruzione, la cui massima concentrazione è data dal «complesso militare-industriale».
La molteplicità dei centri di accumulazione e il controllo non sociale sulle risorse finanziarie, tecnologiche e naturali e sulla loro allocazione non può non comportare la parcellizzazione della natura e degli ambienti, individuabile su diverse scale e rapporti di interdipendenza settoriale, a cui corrisponde la frammentazione nella regolazione del rapporto con la natura.
Quel che programmatori, tecnocrati e sostenitori del capitalismo regolato statualmente hanno sempre trascurato è il fatto che, per quanto i rapporti tra l'economia e la politica possano essere interdipendenti e complessi, fino alla scala mondiale; per quanto ampie possano essere le funzioni socio-economiche degli Stati (e preciso: in modo irreversibile, il che non significa necessariamente a favore del lavoro); per quanto gli Stati possano cercare di orientare la divisione interna del lavoro sociale, creando nuovi rami o agevolando quelli in sviluppo (l'ecobusiness, ad esempio), e tentare di modificare il posto che l'economia interna occupa nell'economia mondiale; ebbene, le capacità degli Stati di regolare la dinamica economica sono comunque limitate oltre, ovviamente, ad essere diseguali, proprio a causa dell’autonomia relativa dell'economia e della politica tipica del capitalismo. Le risorse dello Stato capitalista dipendono da quelle dell'economia capitalista ma non si identificano con esse, così come lo sviluppo delle forze di produzione, il tipo di merci prodotte ed il valore che esse incorporano non equivalgono necessariamente ai bisogni sociali (nel senso più ampio: sia come valori d'uso sia come valori che possono entrare nella riproduzione allargata del capitale). Né la programmazione d'impresa né quella statale possono eliminare le crisi economiche e i costi sociali ed ambientali dell'accumulazione.
Dunque, in tutte le loro fasi le politiche pubbliche devono costantemente fronteggiare dinamiche e problemi che per complessità e interdipendenza sfuggono alle capacità di controllo dell'amministrazione proprio a causa della non-coincidenza del processo economico e di quello politico-amministrativo, della non socializzazione della politica e dell'economia. Le contraddizioni ed i conflitti sociali vengono allora trasformati in modo da risultare «trattabili» dal sistema politico-amministrativo: da qui l'organizzazione di reti di apparati e burocrazie specializzate, di procedure formalizzate e di rapporti informali, il «pluralismo istituzionale» e la mediazione con i gruppi di interesse, con un continuo oscillare fra accentramento e decentramento, creazione e disintegrazione di organi di coordinamento e di responsabilità, discrepanza tra obiettivi e programmi e risorse finanziarie, tecniche, umane, informative.
Sulla base di quanto argomentato fino ad ora le «disfunzioni» istituzionali, la frammentazione e la segmentazione delle politiche ambientali, i conflitti fra agenzie specializzate o livelli politico-amministrativi, la non corrispondenza fra obiettivi, mezzi e realizzazioni, e via dicendo, sono dati strutturali in cui si concretizzano i limiti della politica ambientale, la sua «selettività», per dirla con Offe, nei confronti delle istanze sociali ed ecologiche. Certamente ci sono Stati che hanno capacità amministrative e gestionali migliori di altri, che attuano politiche più organiche e strategie più chiare di altri, più capaci di mediare in modo non meramente simbolico i conflitti ambientali o comunque più orientati alla decisione che alla non-decisione (e in genere sono quelli che possono permetterselo a causa della loro posizione nell'economia mondiale): ma i modi dell'intervento, della programmazione e del controllo statali riproducono (il che non significa che necessariamente «riflettano» in modo passivo) i problemi di coordinamento, controllo e previsione propri dell'economia capitalista.
Nella frammentazione e nel trattamento amministrativo i problemi sono anche depoliticizzati, tendenzialmente ridotti a questioni tecniche e di mediazione tra gruppi di interesse, eludendo così le ragioni strutturali e profonde del conflitto tra capitale e lavoro, salute e natura, da una parte, e capitale dall'altra. Lo Stato, in altri termini, tende a spostare i problemi ed a formularli in modo funzionali alla riproduzione del capitalismo e delle sue istituzioni: per Martin Jänicke nel settore di «rimozione statale-industriale» ambientale le preferenze strategiche delle tecnocrazie private e pubbliche presentano analogie strutturali che portano a definire i problemi, in questo caso ecologici, ignorandone la complessità, in conseguenza della specializzazione (aggiungo: e della divisione dell'accumulazione di capitale in settori e rami), trascurandone le cause, scegliendo le misure più dispendiose per il bilancio statale (21).
Il potere della borghesia si riproduce in questo modo storicamente determinato, per il quale i contenuti delle politiche ambientali e le loro funzioni (e disfunzioni) derivano dalla forma e dalla struttura dello Stato nei suoi rapporti con l'economia e con gli apparati ed i settori che la costituiscono. La statualità, oltre a mediare politicamente fra le frazioni borghesi esprimendo, per dirla in breve, i suoi «interessi generali», e a provvedere ad alcune funzioni economiche (che sono sempre anche politiche), si costituisce nei confronti delle classi dominate come un filtro, grazie all'autonomia ed alla specializzazione dei suoi apparati, come uno schermo ideologico, e come una concentrazione di potere nella forma del monopolio dell'esercizio della violenza fisica. Si tratta di una «scoperta» che è stata fatale a molti governi e maggioranze parlamentari non organiche alla borghesia o alle sue frazioni dominanti e, non di rado, veramente tragica.
La discussione sul futuro «ecologico» del capitalismo come totalità sociale non può prescindere dalla questione del potere politico e dalla sua impotenza» strutturale a risolvere in tutta la loro complessità e profondità i problemi ecologici. Una impotenza che contrasta con la durezza che lo Stato e la borghesia sono capaci di dimostrare, nonostante certe teorizzazioni sociologiche e postmoderne, come ci è ricordato, nel campo delle lotte ecologico-sociali, dagli assassinii di Chico Mendes o di Ken Saro-Wiwa. E se questi sono esempi troppo «esotici», allora bisogna ricordare Vital Michalon, caduto a Malville mentre protestava contro il reattore Super-Phénix il 31 luglio 1977 (presidente della repubblica Valéry Giscard d'Estaing), e l'equipaggio dell'imbarcazione di Greenpeace saltata in aria nel porto di Aukland (Nuova Zelanda) il 10 luglio 1985 (presidente della repubblica François Mitterand), vittime degli apparati di sicurezza dello Stato francese. Ma si è trattato, in questi casi, solo di una frazione infinitesimale della potenza statale, dispiegatasi in modo ben più ampio in occasione della guerra contro l'Iraq, guerra anche per il petrolio.


Fasi e strumenti della politica dell'ambiente

La storia quasi trentennale della politica degli ambienti è solitamente divisa in due fasi.
La prima, è spesso caratterizzata in modo ideal-tipico, forzato, perfino caricaturale, ponendo l'enfasi sulla fissazione di standards e sulle restrizioni all'uso dei fattori di produzione e dei prodotti, con il corredo di agenzie di controllo, sanzioni, scadenze imperative: una tendenza definita da Emilio Gerelli buro-staliniana. Il presupposto implicito di questa fase, si dice, era che tra i valori dell'economia e quelli dell'ambiente non si potesse stabilire un equilibrio per via economica.
Sempre secondo i critici di questo tipo di politica, gli obblighi legali, stabilendo obiettivi ambientali e di sicurezza per la salute e la vita umana a prescindere dal confronto, in termini monetari, tra i benefici previsti e il costo economico per le imprese, avrebbero impedito la ricerca della via meno costosa e più efficiente, in termini di mercato, per migliorare la qualità dell'ambiente (il riferimento qui è essenzialmente alla riduzione delle emissioni inquinanti).
Certamente il contrasto fra gli scenari «apocalittici» dei Limiti dello sviluppo e l'idea dell'integrazione fra capitalismo e ambiente presupposta dallo «sviluppo sostenibile» è significativo di un nuovo contesto politico e culturale. Ma altrettanto significative furono le pressioni esercitate, in genere con successo, dalle organizzazioni imprenditoriali e i compromessi con i gruppi di interesse, la lentezza nell'approvazione e nell'esecuzione delle normative, le proroghe e le deroghe, i fallimenti o i successi molto parziali delle politiche, utilizzati per motivare un diverso e più «liberale» orientamento. C'è da chiedersi quanto lo schema del comando e controllo fosse realmente esteso all'insieme delle politiche che influenzano le condizioni di vita e la natura e in che misura sia stato attuato, quando previsto, senza trasformarsi in qualcosa di diverso, ad es. in una politica distributiva di finanziamenti. Il mercato dei diritti di inquinamento o, per dirla in modo più tecnico e neutro, dei permessi trasferibili all'emissione, nacque proprio nel quadro del Clean Air Act nel 1977, non durante l'amministrazione della «nuova destra» reaganiana.
Il «principio chi inquina paga» è stato fin dall'inizio uno dei cardini della politica degli ambienti e dimostra la difficoltà di tagliare nettamente in due e in modo ideal-tipico le fasi della politica ambientale. Esso mira a «perfezionare» il mercato attraverso l'internalizzazione dei costi ambientali, rendendo visibile ciò che il mercato spontaneamente non vede: è certamente alla base di misure di tipo economico-finanziario quali le tasse ambientali piuttosto che del tipo «comando e controllo».
Se questo principio venisse applicato in modo esteso le esternalità ambientali presenti, almeno quelle quantificabili, monetizzabili e con responsabili identificabili, sarebbero incluse nel calcolo economico. Ma una tassazione che internalizzasse integralmente i costi ambientali monetizzabili in tutti i settori spingerebbe verso l'alto i costi di produzione e, in definitiva, negherebbe il principio stesso, in quanto l'aumento dei prezzi ricadrebbe sui consumatori e solo sulla domanda: l'effetto degli shock petroliferi andrebbe moltiplicato. Né vale dire che in questo modo i consumatori si orienterebbero verso i prodotti più ecologici, perché l'inflazione eliminerebbe tale effetto orientativo. Il ragionamento in questi termini è del tutto ipotetico perché il reddito e la crescita economica sono mezzi della legittimazione e nessuna maggioranza politica è disposta a suicidarsi tentando di internalizzare integralmente i costi ambientali. L'esperimento mentale è comunque utile perché insegna qualcosa non solo sui limiti degli strumenti finanziari e sui loro effetti distributivi ma anche sulla loro natura tecnocratica. Le spese sostenute dalle imprese inquinanti andrebbero confrontate con i sussidi e le varie forme di agevolazioni, giustificate da esigenze di carattere economico e sociale (22). 
Ciò che sarebbe ecologicamente e a volte finanziariamente più razionale deve fare i conti anche con i vincoli posti dalla concorrenza e dalla divisione internazionale del lavoro. L'impasse dei negoziati sulla riduzione delle emissioni che determinano l'effetto serra ne è l'esempio maggiore perché in questo caso, in misura decisamente maggiore che per la riduzione dei Cfc, la posta in gioco è la possibilità dello sviluppo industriale per il «sud» e della competitività internazionale per il «nord».
Nell'orientamento più recente della politica ambientale, e coerentemente al quadro complessivo che esalta l'efficienza del mercato, si tende a dare maggior risalto agli «strumenti economici» e all'autoregolamentazione, dal disegno trasversale, contrattualistico e volontaristico (23) rispetto alla regolamentazione diretta.
Gli strumenti che l'approccio dell'autoregolamentazione contrappone allo schema del «comando e controllo» sono solo in parte nuovi: in alcuni casi risalgono alla metà degli anni '70 o non sono altro che l'estensione in campo ambientale di metodologie ancor più vecchie. Ma nuova è la tonalità complessiva della politica ambientale. Secondo l'Ocse, nel 1987 erano in vigore nei paesi membri 150 strumenti economici (tra cui circa 80 tasse e 40 sussidi), ma di questi «meno della metà avevano l'intenzione di generare un incentivo economico e oltre metà erano intesi ad aumentare il reddito. Solo un terzo potrebbe aver avuto qualche impatto incentivante» e nell'insieme «nel 1987 gli strumenti di politica ambientale nei paesi membri dell'Ocse erano principalmente del tipo comando e controllo»; ma nel 1994 il numero degli strumenti economici risultava aumentato del 25-50% a seconda dei paesi. Tra i paesi membri per i quali si disponevano di più dati i «cambiamenti sono stati estesi in Finlandia, Svezia, Stati Uniti; moderati in Olanda; e minori in Francia, Germania e Italia» (24). Benché la regolamentazione diretta non possa essere eliminata, la tendenza è dunque a sviluppare gli strumenti economico-finanziari, contrattualistici e volontari.
Stando a questo approccio la regolamentazione diretta è in genere inefficace e costosa.
Teoricamente esso presuppone: primo, che le imprese sappiano meglio dello Stato quale sia la via più conveniente per la riduzione degli impatti ambientali; secondo, che i «valori ambientali» possano essere internalizzati dall'impresa, una volta compreso che essi sono una opportunità e non un vincolo; terzo, che i problemi ecologici nascano dalla mancanza di diritti di proprietà e dalla carenza di mercato piuttosto che dai suoi fallimenti. Lungi dal riconoscere i limiti intrinseci del mercato, si postula che questo particolare meccanismo capitalistico di coordinamento coincida con una astorica razionalità economica. L'intervento statale deve quindi essere il più possibile limitato ad una funzione di indirizzo e di stimolo della trasformazione, «ecologica» ma guidata dal mercato, della tecnologia industriale. In altri termini, scontando la compatibilità tra capitalismo e ambiente, si intende rafforzare il pieno controllo imprenditoriale sulla direzione delle forze di produzione, usando gli standards e la regolamentazione diretta solo nei casi più critici.
Le forme concrete della «sostenibilità» del capitalismo dipendono non solo dalla natura ma anche più dalle specificità storiche e geografiche (nazionali e subnazionali) dei diversi capitalismi. L'esposizione teorica può essere verificata considerando caratteri specifici ed effetti delle politiche ambientali dei singoli Stati, quelli che sono definibili gli stili nazionali (25).
Si tratta di articolare un insieme complesso di variabili fra cui i modi dei rapporti fra lo Stato e le imprese (o meglio con i rami ed i settori dell'accumulazione), le caratteristiche dell'ordinamento istituzionale e della pubblica amministrazione, livelli e orientamenti della spesa pubblica e, in modo più specifico per il nostro discorso, forza di pressione, tipo di organizzazione, conflittualità e modi di neutralizzazione della mobilitazione delle popolazioni interessate e di cooptazione degli ambientalisti nelle compatibilità del sistema politico.
L'industria del dis-inquinamento è un settore i cui tassi di crescita sono superiori a quelli generali delle economie nazionali e per il quale lo Stato nelle sue varie articolazioni, contraddicendo il dogma liberistico, funge da propulsore e, almeno fino ad ora, da protettore: le oscillazioni nella crescita del settore, le differenze tra i paesi, le disuguaglianze tra i grandi comparti (acqua, aria, rumore ecc.), dipendono dall'iniziativa politica, nazionale e locale (26). Specialmente le grandi società conglomerate hanno interesse a sviluppare l'«industria verde» perché questa può costituire una forma di internalizzazione dei costi: è possibile cioè produrre in proprio i processi necessari per essere conformi alle norme. Si possono creare nuove divisioni societarie, compensare produzioni in declino, valorizzare risorse interne, probabilmente riciclare impianti esistenti; l'igiene ambientale dei siti può rientrare nella valutazione degli stessi ai fini della vendita. La formazione di risorse e competenze in questo campo consente di aumentare il fatturato ed i profitti con le vendite a terzi. Ma, anche nei paesi più sviluppati, siamo ancora molto lontani dall'avvento delle «tecnologie pulite» a monte. Un documento Ocse stimava gli investimenti per tecnologie pulite nel 1985 non superiori al 20% degli investimenti totali per la riduzione dell'inquinamento. Anche più drastico un documento ufficiale statunitense: «Negli Stati Uniti più del 99% degli stanziamenti federali e statali viene devoluto al controllo dell'inquinamento dopo che i rifiuti sono stati effettivamente generati» (27). E secondo una ricerca sull'impiantistica ambientale, commissionata dal Ministero dell'Ambiente, «dopo oltre venti anni di attività politica ambientale, l'industria tedesca destina ancora il 90% dei propri investimenti ambientali a impianti di abbattimento a valle, e similmente avviene in Francia, Stati Uniti e Belgio, dove gli interventi end-of-pipe costituiscono ancor oggi una quota degli investimenti ambientali delle imprese compresa tra l'80 e il 90%» (28).
I tempi della «tecnoecologia» sembrano veramente molto lunghi.


Politica degli ambienti, democrazia, trasformazioni dello Stato

Quel che è in gioco nelle trasformazioni attuali della statualità non è un impossibile ritorno al passato liberale e un ridimensionamento assoluto dell'intervento dello Stato (per cui a un meno di intervento statale corrisponderebbe un più di mercato). Se c'è qualcosa che le politiche ambientali ed i problemi ecologici dimostrano al di là di ogni dubbio è l'irreversibilità delle relazioni qualitative tra economia e statualità costruite nel corso del '900. Quel che cambia sono l'orientamento delle politiche, gli strumenti, le priorità, il peso relativo degli apparati, con ciò assecondando le trasformazioni nei rapporti fra le classi. Un paradosso della fase attuale è che al declino dei diritti economici-sociali, e forse anche di quelli civili e politici, sembra corrispondere lo sviluppo del diritto dell'ambiente.
Quando la grammatica politica, anche della sinistra, si riduce agli imperativi della «competizione globale» ed ai criteri della (sedicente) efficienza del mercato e quando la validità della politica dei governi si misura in base all'indice della borsa ed al cambio della moneta, è dubbio che i bisogni sociali, e tra questi quelli di tipo ambientale, possano trovare soddisfazione. Se non alla condizione e nei limiti, quantitativi e qualitativi, di una ripresa del tasso di accumulazione a cui, altro paradosso, si oppone lo stesso miope indirizzo detto liberista. Un certo «keynesismo ambientale» potrebbe svolgere un ruolo in un nuovo periodo di lunga crescita economica. Ma la crisi dei diritti economico-sociali e delle istituzioni del welfare state impone coattivamente ed in modo generalizzato i mezzi che si sono già dimostrati incapaci di regolare razionalmente non solo lo scambio sociale ma il ricambio organico società-natura: la moneta ed il calcolo monetario,  la produzione privata di servizi e la centralità dell'impresa.
Quando lo Stato si vuole meno «sociale», ovvero quando più forte è il potere borghese e minore la conflittualità che genera ed estende le garanzie politiche e sociali, si intensificano gli aspetti «assolutistici» impliciti nell'amministrazione statale, di cui esempio macroscopico è lo spostamento del potere in direzione dei ministeri finanziari e delle Banche centrali, in funzione della priorità accordata alla politica monetaria e valutaria. Questo influenza direttamente la politica ambientale in diversi modi: dal rigetto della programmazione e di una attiva politica industriale, alla scelta degli strumenti economici per l'ambiente fino al finanziamento dei ministeri per l'ambiente e delle agenzie ambientali o degli enti locali.
In questa logica il favore, accordato in apparenza all'impersonale entità del mercato, in effetti ai poteri economici privati, comporta dei privilegi che scaturiscono dall'intreccio tra interessi burocratico-statali e privati-imprenditoriali, o meglio dall'interiorizzazione negli apparati politici e burocratici degli interessi delle frazioni capitalistiche. Lo sviluppo di questi privilegi assolutistici accentua la crisi dei principi di legalità e di certezza del diritto, di pubblicità, e di controllo degli atti statali: tipico il caso delle inchieste giudiziarie che, anche in campi ambientali, coinvolgono i politici rivelando una parte di quei poteri invisibili che continuamente si riproducono e prolificano nel normale funzionamento dello Stato capitalista. Dalla fine della Seconda guerra mondiale la politica nei paesi a capitalismo avanzato non è mai stata tanto elitaria e ridotta ad amministrazione e, proprio per questo, trasformata in spettacolo delle fortune e delle sfortune dei «principi». Nonostante la retorica liberale e liberista le trasformazioni in corso nei rapporti fra Stato ed economia sono tali da rafforzare in modo sostanziale i poteri burocratici ed amministrativi, se non nei confronti dei forti, certamente nei confronti dei cittadini.
Può l'erosione della democrazia coesistere con la razionalità ecologica?
Nel migliore dei casi, la ridefinizione dei rapporti tra Stato ed economia ripropone, anche nel rapporto tra società capitalistica e natura, il paradosso di una maggiore razionalità microeconomica (efficienza a livello dell'impresa) e di una maggiore irrazionalità macrosociale. Il risparmio di energia e materia a livello della singola unità produttiva è infatti perfettamente compatibile con la logica del sistema: ad esso si possono opporre solo la convenienza economica e il monopolio tecnologico (il discorso può essere diverso al livello del consumo). Ma, come l'insieme delle regolamentazioni parziali dello Stato e l'ecobusiness, si tratta solo di correttivi all'interno di una logica sistemica che richiede la crescita tendenzialmente senza limiti dell'accumulazione di capitale, della produzione e consumo di merci e quindi dell'entropia complessiva dell'energia e della materia.
Si può fare un'analogia con la riduzione della durata della giornata lavorativa, la singola conquista socio-economica più importante e dagli effetti più ampi nella storia del capitalismo: essa ha spinto all'aumento della produttività e al perfezionamento dell’estrazione di plusvalore relativo. Nello stesso tempo, questo ha comportato la sussunzione reale della forza lavoro al capitale, l'estensione della mercificazione, la trasformazione dei rapporti e dei problemi sociali e lo spostamento delle contraddizioni sistemiche nel tempo e nello spazio.
La parziale internalizzazione del «valore ambiente» nella società capitalista può avere effetti simili, ben rappresentati dai problemi delle biotecnologie: la creazione di un nuovo ramo di accumulazione, una più spinta «sussunzione reale della natura», una migliore capacità di utilizzarla produttivamente, razionalmente in termini microeconomici e di marketing, creando nuovi problemi ecologici e spostandone altri verso le generazioni a venire e le aree dette in via di sviluppo. La tendenza potenzialmente illimitata all'utilizzo capitalistico, privato e statale, dei processi e delle risorse naturali va messa a confronto con i limiti, variabili ma strutturali, degli apparati politico-amministrativi nel prevedere, prevenire, valutare retrospettivamente gli effetti ecologici dell'attività economica nel suo complesso e di retro-agire adeguatamente e tempestivamente.
I toni delle politiche ambientali rispondono alla situazione sociale e politica generale ma esse sono sempre un vettore della mercificazione della natura.
A un tono difensivo, segnato dal prendere tempo e dall'incertezza sulla strategia di fondo, è seguito  un approccio pragmatico, più coerente rispetto all'insieme delle funzioni statali: di legittimazione e mediazione e, specialmente, di razionalizzazione del quadro al cui interno sviluppare la mercificazione e la valorizzazione delle condizioni naturali della produzione capitalistica. Il che pone le premesse per cui i limiti delle politiche ambientali si trasformino in crisi delle stesse.


Conclusione

La questione cruciale è che apparati sottratti al controllo sociale, che siano pubblici o privati, possono incorporare i bisogni sociali ed ecologici solo come variabili e sotto-prodotti delle loro autonome finalità, quali risultano dalla materialità dei rapporti sociali che sottintendono, si tratti della riproduzione di una casta o classe politico-burocratica sedicente socialista o di una classe di capitalisti privati. La lotta politica e sociale può condizionare quelle finalità e le politiche possono incorporare compromessi, espliciti o impliciti, con i movimenti sociali. Ma la trasformazione-modernizzazione del sistema non fa che spostare nel tempo e nello spazio le contraddizioni interne, fino a quando non si pone la questione del potere degli apparati politici ed economici. È questo potere di classe, che si condensa e si concentra politicamente nello Stato e nell'insieme delle sue politiche, a decidere (o meglio: ad orientare indipendentemente da una chiara previsione degli effetti sociali ed ecologici futuri) il tipo di sviluppo delle forze di produzione, cioè del rapporto con la natura.
Il rischio è che
«nel contesto dell'industrialismo e della logica del mercato il riconoscimento delle costrizioni ecologiche risulti nell'estensione del potere tecnoburocratico. Questo è un approccio che risale a un punto di vista premoderno che è tipicamente anti-politico. Esso abolisce l'autonomia del politico a favore dell'espertocrazia, designando lo Stato e i suoi esperti per valutare il contenuto dell'interesse generale e per escogitare i modi per assoggettare ad esso gli individui. L'universale è separato dal particolare, i più alti interessi dell'umanità sono separati dalla libertà e dalla capacità di autonomo giudizio dell'individuo» (29).
La versione estrema dell'espertocrazia e dello Stato-strumento, è la soluzione hobbesiana dei problemi ecologici che fa appello, per salvare l'umanità dalla catastrofe ecologica, a un potente Leviatano e/o a una paterna aristocrazia che educhi la popolazione a riconoscere i vincoli posti dalla scarsità, unendo i caratteri della religiosità e della disciplina militare. Ma sappiamo che il totalitarismo non implica affatto una gestione economicamente ed ecologicamente razionale e che esso cova la propria autodistruzione; e se lo si presuppone come soluzione inevitabile in una condizione già catastrofica sembra poco credibile la persistenza delle capacità dello stesso controllo totalitario, almeno in termini moderni.
Benché un punto di vista hobbesiano possa caratterizzarsi come statalismo socialista, benché certi discorsi ideologici sulle società pre-capitaliste o sul comunitarismo o sul senso di identità e di appartenenza diffusi nell'ambientalismo sorvolino sulla loro compatibilità con la libertà individuale, l'aspetto più interessante delle prospettive hobbesiane consiste in quanto rivelano dei limiti ultimi dell'orizzonte politico-ecologico del pensiero borghese e della complementarietà tra l'individualismo dello homo economicus e l'autoritarismo. Questo è chiaro specialmente nella celebre parabola di Garret Hardin sulla «tragedia dei beni comuni» e sul suo messaggio: «la rovina è il destino verso cui sono trascinati tutti gli uomini, ciascuno inseguendo il proprio miglior interesse, in una società che crede nella libertà dei beni comuni. La libertà nell'ambito dei beni comuni porta la rovina per tutti» (30). L'argomentazione si presta a due soluzioni che condividono gli stessi presupposti e che risultano essere due facce della stessa medaglia. Innanzitutto si può pensare che sia possibile rimediare alla «tragedia dei beni comuni» privatizzandoli e sviluppandone il mercato. Per gli economisti contemporanei la parabola ha in campo ambientale lo stesso significato paradigmatico che ebbe il Robinson Crusoe per l'economia classica, di cui condivide l'impianto epistemologico strettamente individualista ed utilitarista e l'antistoricità. Ma, segno dei tempi, i banali esempi di Hardin certo non hanno il fascino dell'avventura narrata da Defoe.
Oppure si può ricorrere, con le parole di Hardin, alla «coercizione reciprocamente concordata», idea che ha interessato gli studiosi della politica. Hardin non è soggettivamente un totalitario perché si pone il problema dei correttivi all'autorità dei custodi ma, oggettivamente, l'impianto del suo discorso può giustificare anche il Leviatano. Come altri hobbesiani egli è stato criticato perché ammette implicitamente solo il «dilemma del prigioniero» ed esclude giochi più complessi a n-giocatori e con possibilità di apprendimento. Ma il nocciolo della questione è che «si ha sfruttamento eccessivo delle risorse comuni solo se l'accesso a tali risorse non è regolato. Ma proprietà comune e proprietà a libero accesso non sono sinonimi; non tutta la proprietà pubblica è priva di regole riguardanti il suo utilizzo» (31). Né la proprietà comune implica che essa debba essere gestita necessariamente dal Leviatano: la riduzione delle alternative alla privatizzazione dei beni comuni o alla coercizione può essere posta solo da chi fa del comportamento del capitalista l'essenza dell'umanità, che ammette solo l'eteroregolazione mediante la proprietà privata o il potere statale e nega la possibilità della socializzazione dell'economia e della politica.
La riflessione ambientalista ed ecosocialista sarà teoricamente parziale fino a quando non  approfondirà la critica dei meccanismi della politica ambientale e della stessa statualità in quanto limiti alla razionalità ecologica. Credo siano chiare le implicazioni politiche di questa posizione: non è sufficiente porre la questione del rapporto tra rosso e verde o tra marxismo ed ecologismo, o dell'alleanza tra partiti verdi e partiti socialdemocratici (o comunisti) o tra ambientalismo e sindacalismo per un qualche nuovo «piano del lavoro».
Quel che è politicamente discriminante è l'autonomia politica, da cui dipende la volontà, e la capacità, di far vivere anche nelle lotte difensive e parziali e negli obiettivi tattici la prospettiva di una società ecologicamente e socialmente razionale. L'ecologia è destinata ad essere un'appendice dell'economia fino a quando non sarà possibile la gestione direttamente sociale delle risorse e del ricambio organico su tutte le scale. E questo significa che solo «reincastrando» la politica e l'economia è possibile costruire modi e istituzioni della decisione politica ed elaborare i criteri di un calcolo delle risorse che, subordinando sempre più gli scambi monetari a scambi di usi e di valori d'uso, abbiano la qualità della vita e dei rapporti ecologici come proprie finalità sistemiche. La gestione democratica e pianificata delle forze di produzione è condizione essenziale per la costruzione di una società ecologicamente razionale. Anch'essa realizzerà compromessi e mediazioni, ma la socializzazione e l'integrazione della politica e dell'economia possono garantire sia maggiore responsabilità, capacità di previsione e di valutazione ecologica dei rischi, impliciti nel rapporto che qualsiasi tipo di società ha con la natura, sia la necessaria disponibilità dei meccanismi istituzionali e sociali e delle risorse tecniche ed economiche perché il rapporto con la natura corrisponda ai criteri della razionalità ecologica. Allora l'uso sociale della natura potrebbe non essere in antitesi con autentici sentimenti di rispetto per essa.
Tutto ciò potrebbe essere solo un'utopia. Ma certamente più concreta di un «capitalismo ecologicamente razionale».


Note
20) In questa forma lo Stato capitalista risulta dedotto dalla specificità del rapporto di lavoro salariato. Benché non sia rilevante per la discussione delle politiche ambientali ritengo comunque di estrema importanza sottolineare che questa deduzione si basa su qualcosa di più «concreto» di una operazione logica. Insieme al ruolo determinante dei rapporti di forza tra signori e contadini, diversi nelle varie zone d'Europa e in particolare fra la sua parte occidentale e quella centro-orientale, essa è il nocciolo di una interpretazione storiografica della transizione dal feudalesimo al capitalismo, e che può quindi essere verificata nella ricerca e nel dibattito: della linea che parte dalle posizioni di Dobb nella polemica con Sweezy e che giunge fino al «dibattito Brenner». Si tratta di un punto di vista diverso da quello di Gunder Frank o di Wallerstein, ma non esclude affatto l'esistenza di più modi di produzione in un unico sistema mondiale di scambi e di interazioni strategiche: è la concezione del sistema che è diversa. Precisazione: fenomeni di coercizione privata non sono esclusi né nei processi di «accumulazione primitiva» del capitale nei paesi neocoloniali o ex «socialisti» né in quelli a capitalismo avanzato, come è il caso delle mafie di vario genere. Ma in un capitalismo sviluppato fenomeni di questo tipo sono, non a caso, perseguibili.
21) Martin Jänicke, «Per una teoria del fallimento dello Stato», in Il governo debole. Forme e limiti della razionalità politica, Bari, De Donato, 1981, a cura di Carlo Donolo e Franco Fichera.
22) Si veda Organisation for economic co-operation and development, Subsidies and environment. Exploring the linkages, Oecd, 1996; David Roodman, «Riformare le sovvenzioni», in State of the wordl, a cura di Lester Brown, Christopher Flavin, Hilary French, Torino, Isedi, 1997. Un rapporto della Corte dei Conti della Comunità Europea indica che i 2,5 miliardi di Ecu stanziati nel periodo 1989-1993 nel quadro dei fondi strutturali comunitari hanno avuto a che fare più col nettoyage che con l'azione preventiva ed afferma che «se dovessero moltiplicarsi, soprattutto senza autentiche misure di dissuasione per prevenire il ripetersi dei danni, potrebbero contribuire ad accreditare l'idea che l'inquinatore non è il pagatore e che il costo ambientale di una attività non deve essere a carico di chi intraprende l'attività», cit. in Henri Smets, «Lex exceptions admises au principe polleur payeur», in Droit et pratique du commerce international, tomo 20, n. 2, 1994, p. 217. Tra i tanti dati citati: nel 1990 l'industria francese ha investito 6 miliardi di franchi nella lotta all'inquinamento, con sovvenzioni a questo fine per 2 miliardi, ma ricevendo nel complesso (industria manufatturiera, gas, acqua e settore elettrico) 41,4 miliardi, su un ammontare complessivo di sovvenzioni per tutti i settori economici di 168 miliardi.
23) «L'autoregolamentazione ha raggiunto e continuerà a raggiungere importanti successi nel migliorare gli effetti ambientali dell'industria e dell'economia. Ma perché essa funzioni e sia credibile, deve essere negoziato un quadro  chiaro di aspettative e requisiti fra le industrie e il governo. All'interno di tale quadro, l'industria sarà libera di innovare e competere (...) L'autoregolamentazione può dimostrarsi alla società in generale più conveniente sia delle regolamentazioni comando e controllo, sia degli strumenti economici. L'industria spesso detiene le informazioni sulle tecnologie e sulle emissioni che il governo deve regolare in modo efficace. Allora L'autoregolamentazione evita, in una certa misura, le spese del governo nella raccolta delle informazioni, nella loro trasformazione in regolamentazioni e poi nel monitoraggio degli effetti. Ovviamente ci sarebbe sempre una raccolta di informazioni e un monitoraggio da parte dei governi, ma essa dovrebbe essere meno antagonista e meno estesa, perciò più economica», da Stephan Schmidheiny, Cambiare rotta. Una prospettiva globale del mondo economico industriale sullo sviluppo e l'ambiente, Bologna, il Mulino, 1992, pp. 45-46.
Aggiunta del 2014: il 13 febbraio 2012 lo stesso Stephan Schmidheiny venne condannato dal tribunale di Torino a 16 anni di reclusione, elevati a 18 nella sentenza d’appello l’anno successivo, per disastro ambientale doloso permanente e per omissione volontaria di cautele antinfortunistiche, nonché al risarcimento di circa 3000 parti civili: ciò in conclusione del procedimento riguardante la morte di quasi 3000 persone a partire dagli anni ‘50 causata dall’esposizione all’amianto all’interno e nelle vicinanze delle installazioni di Eternit Italia.
24) Oecd, Applying economic instruments to environmental policies in Oecd and dynamic non-member states, Oecd, 1994, pp. 25-26.
25) Sulla comparazione di stili nazionali della regolazione ambientale: Rodolfo Lewanski, «La formulazione delle politiche ambientali: attori, razionalità e stili nazionali», in Costituzioni razionalità ambiente, a cura di Sergio Scamuzzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1994; P. Vogel, National styles of regulation: environmental policy in Great Britain and the United States, Ithaca and London, Cornell University Press, 1986; Volker Schneider, «Corporatist and pluralist patterns of policy-making for chemicals control: a comparison between West Germany and the Usa», in Alan Cawson (a cura di), Organized interests and the state. Studies in meso-corporatism, Beverly Hills, Cal., Sage Publications, 1985.
26) Sull'ecobusiness: a cura di Emilio Gerelli, Ascesa e declino del business ambientale. Dal disinquinamento alle tecnologie pulite, Bologna, il Mulino, 1990; a cura di Bruno Dente e Pippo Ranci, L'industria e l'ambiente, Bologna, Il Mulino 1992; a cura di Roberto Malaman e Sergio Paba, L'industria verde, Bologna, il Mulino, 1993; Rita Madotto, L'ecocapitalismo. L'ambiente come grande business, Roma, Datanews, 1993; Claudia Rosani, «L'industria dell'ecobusiness», Capitalismo natura socialismo n. 3 (fasc. 9), ottobre 1993; Alexandre Vatimbella, Le capitalisme vert, Paris, Syros, 1992.
27) U. S. Congress, Office of Technology Assessment, Serious reduction of hazardous waste, Washington, U. S. Government Printing Office, 1986, in Schmidheiny op. cit., p. 145.
28) In L'industria verde, Bologna, il Mulino, 1993, p. 12, a cura di Roberto Malaman e Sergio Paba.
29) André Gorz, «Political ecology: expertocracy versus self-limitation», in New left review n. 202, novembre-dicembre 1993, p. 57.
30) Garret Hardin, «The tragedy of the commons», in Science n. 162, 1968.
31) Charles Perrings, Economia e ambiente, Milano, Etas, 1992, p. 178, prima ed. Cambridge University Press, 1987.

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RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

* * *

a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

* * *

a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

* * *

a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

* * *

a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.