L’associazione Utopia rossa considera suo fondamento politico il principio secondo cui il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi si deve riflettere l’essenza del fine. Non ha programmi politici, come del resto non ne aveva la Prima internazionale. Nonostante le più diverse provenienze ideologiche dei suoi sostenitori, essa ritiene che l’anticapitalismo dilagato dopo l’inizio dell’Antirivoluzione russa (dicembre 1917) sia stato motivato fondamentalmente da idee precapitalistiche, cioè retrograde, e non da progetti di civiltà in grado di superare il capitalismo sviluppando ulteriormente i suoi modelli di democrazia. Ciò spiega anche il prevalere, nella storia della cosiddetta «sinistra», di simpatie per i regimi dittatoriali di ogni specie e colore. Utopia rossa si batte contro l’ulteriore diffusione di ideologie precapitalistiche vecchie e nuove (in campo politico, culturale, ecologico, religioso ecc.), come parte della sua battaglia per il superamento del capitalismo, se si vuole salvare la vita sulla Terra con la sua umanità. In questo senso la sua utopia continua ad essere rossa.

The Red Utopia association considers its political foundation to be the principle that the end does not justify the means, but that the means must reflect the essence of the end. It has no political program, just as the First International did not. Despite the diverse ideological backgrounds of its supporters, it believes that the anti-capitalism that spread after the start of the Russian Anti-Revolution (December 1917) was fundamentally motivated by pre-capitalist – that is, retrograde – ideas, and not by civilizational projects capable of overcoming capitalism and of further developing its democratic models. This also explains the prevalence, throughout the history of the so-called «left», of sympathies for dictatorial regimes of all kinds and colors. Red Utopia fights against the further spread of old and new pre-capitalist ideologies (in the political, cultural, ecological, religious, and other fields) as part of its battle to overcome capitalism, if life on Earth, including its humanity, is to be saved. In this sense, its utopia remains red.

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martedì 23 dicembre 2025

CARLO ROSSELLI: UN RIVOLUZIONARIO LIBERTARIO

di Antonella Marazzi


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Nell’introdurre brevemente i testi di Carlo Rosselli da me selezionati per questa antologia, mi sia consentito di iniziare accennando a come nacque il mio interesse per questa figura di grande rilievo nel quadro dell’antifascismo italiano. Era il 1970 e avevo circa vent’anni, quando uscì il film con la regia di Bernardo Bertolucci intitolato Il conformista. La sceneggiatura era tratta dal romanzo di Alberto Moravia che lo aveva scritto nel 1951. Narrava la storia di un assassinio politico verificatosi in Francia nel 1938: Marcello Clerici (Jean-Louis Trintignant) - professore di filosofia divenuto agente dell’Ovra, la polizia segreta fascista - viene incaricato di uccidere il suo ex professore, Luca Quadri, rifugiato in Francia in quanto antifascista. L’assassinio riesce e Luca Quadri è ucciso in un agguato nel corso di un viaggio in auto. Nel film, come nel romanzo omonimo, il personaggio della vittima evoca chiaramente la figura di Carlo Rosselli.

Nella realtà storica, come è noto, Carlo fu assassinato insieme al fratello Nello, in un agguato eseguito da membri dell’organizzazione di estrema destra - la Cagoule, nata nel 1936 - lungo una strada nei pressi di Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo stava soggiornando per cure termali, a causa di una flebite contratta durante la sua partecipazione alla Guerra civile spagnola. L’ordine di ucciderlo veniva dai servizi segreti fascisti italiani, cioè direttamente da Mussolini.

Dopo la visione del film, mi colpì il fatto che Moravia avesse scritto un romanzo collocato in un preciso contesto storico-politico, pur affrontando altri temi legati soprattutto alla sua visione del degrado morale della borghesia italiana: un tema ricorrente nei suoi romanzi. Documentandomi, scoprii così che il romanzo e il film si erano ispirati alla figura di Carlo Rosselli e che questi era il cugino di Alberto Pincherle Moravia. Infatti la madre di Carlo, Amalia Pincherle era la sorella del padre di Alberto, Carlo Pincherle.

Fu dunque in questo modo, casuale e in un certo senso curioso, che venni a sapere di questa figura che aveva avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’antifascismo italiano. Frequentavo una facoltà scientifica e nella storia studiata al liceo non avevo mai sentito nominare i fratelli Rosselli: un fatto quasi inevitabile, visto il modo affrettato con cui si studiavano, negli anni ‘60, gli eventi storici del Novecento.

Il mio incontro «ufficiale» con Rosselli avvenne invece anni dopo, nel 1979, quando inserii l’articolo sul suo incontro con Trotsky nell’antologia degli Scritti sull’Italia di Trotsky, da me curata1.

Nel tempo, mi sono familiarizzata con l’opera di Carlo e con la sua storia personale e politica. Opera e storia che non possono non colpire, soprattutto alla luce della caratteristica principale di questa personalità: la coerenza costante tra pensiero e azione, nel suo essere stato non solo un teorico e pensatore  - oltre che un giornalista brillante e fecondo - ma anche un uomo d’azione, votato a ideali rivoluzionari. Ideali  che ha sempre cercato di realizzare concretamente, gettandosi nella lotta ogniqualvolta possibile, e per quanto glielo permettessero le condizioni oggettive in cui fu costretto a vivere: arrestato, processato, inviato al confino e costretto a riparare in Francia dopo una rocambolesca fuga da Lipari insieme a Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti.

Anche il suo pensiero politico ha caratteristiche proprie. Dotato di una formazione marxista, è stato però un critico intransigente di Marx, cui dedica tutto il primo capitolo di Socialismo liberale. Individuò nella teoria marxiana una concezione troppo totalizzante che, a suo parere, non lasciava spazio alla volontà della persona. Riteneva che la marxiana ineluttabilità riguardo al superamento del capitalismo fosse troppo deterministica. Non poteva condividere la prospettiva secondo cui, quando la classe capitalistica avesse assolto completamente alla propria funzione di contribuire al  massimo sviluppo delle forze produttive, sarebbe stata sostituita dalla classe che, col proprio sfruttamento, aveva permesso tale sviluppo. Né poteva condividere l’illusione che la classe operaia sarebbe stata in grado di gestire direttamente la fase successiva, quella della transizione al socialismo e poi della costruzione del comunismo, sostituendosi alla borghesia come classe dominante. 

Egli riconosceva, però, di essere profondamente debitore verso il pensiero di Marx, come riteneva che lo fosse tutto il socialismo marxista ortodosso e poi socialdemocratico successivo. Sosteneva, però, che gli eventi storici susseguitisi alla morte di Marx (come il fatto che le uniche due rivoluzioni con soviet operai - 1905 e 1917 - si erano realizzate non nella progredita e industrializzata Inghilterra, bensì nella Russia arretrata e ancora semifeudale, con una debole classe operaia) avevano dimostrato l’erroneità delle sue previsioni.

Riteneva, quindi, un fattore inevitabile e positivo il revisionismo introdotto dalla socialdemocrazia tedesca.

La sua posizione, però, era articolata, non definibile come antimarxista. In un articolo del giugno 1936 scrive:


«Noi non abbiamo mai detto di essere anti-marxisti. Abbiamo detto invece l’opposto, riconoscendo nel maggiore umanista dei tempi moderni uno dei nostri maestri. Ancora qualche settimana fa [...] rivendicammo il pensiero autentico di Marx, antistatale e antitotalitario [...]. Quanto più nettamente anti-statale sarebbe stato se si fosse trovato a lottare contro lo Stato borghese dell’agonia, contro lo Stato tirannico, monopolista, totalitario dei nostri giorni. Ma Marx è morto, e in vece sua parlano gli epigoni, che col suo nome sempre sulle labbra ne tradiscono lo spirito essenziale. Sarà uno dei compiti di G.L. di rivendicare il Marx vero, con la stessa spregiudicatezza che egli usò verso i suoi maestri socialisti inglesi e francesi»2.


Riteneva, tuttavia, che la teoria marxista fosse stata superata dagli eventi storico-politici succedutisi alla morte di Marx e si considerava portatore di una nuova idea di socialismo che definiva, appunto liberale. Un socialismo basato soprattutto sul concetto di libertà (non come fatto individuale, ma collettivo), e di giustizia sociale, che guardasse agli interessi di tutti gli strati dei lavoratori. Rifiutava infatti il ruolo che Marx aveva assegnato al proletariato industriale come classe lavoratrice centrale, determinante per il progresso collettivo e la costruzione del comunismo.

Inoltre ,riteneva che nella concezione marxiana non fosse assegnato un ruolo significativo alla volontà umana nel suo progredire verso il superamento del capitalismo, ma che questo fosse indotto inevitabilmente dallo sviluppo stesso delle forze produttive, che avrebbe determinato la fine della funzione progressiva della borghesia in quanto classe e la sua sostituzione con quella operaia. Per Rosselli, invece e come già accennato, la volontà umana era un elemento determinante per la conquista e l’affermazione del socialismo.

Ricorda egli stesso di aver scritto Socialismo liberale al confino di Lipari, di getto e con l’ausilio di pochissimi testi  a disposizione. Al suo arrivo in Francia dopo la fuga, nel 1929, l’opera (che era stata trafugata durante il confino da Marion Cave Rosselli, la moglie inglese di Carlo), fu pubblicata in francese. Nello stesso anno, insieme a Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e altri fuoriusciti italiani, fondò il gruppo di Giustizia e Libertà, cui ben presto si affiancarono le pubblicazioni omonime in forma di Quaderni mensili e poi di Rivista settimanale, sui quali Rosselli scriveva regolarmente. Ne era, di fatto, il direttore, anche se mai ufficialmente. Giustizia e Libertà fu una sorta di figlia politica e culturale prediletta, che egli pose al centro di tutta la propria attività di pensatore e combattente antifascista militante.

Ma che cosa rappresentava di preciso ai suoi occhi questo organismo? In uno dei suoi ultimi scritti pubblicati sulla rivista omonima (nel maggio 1937), un mese pirma di essere assassinato, scrive:


«Certo non è facile definire G.L. in base alla terminologia usuale dei partiti proletari. In base a questa terminologia dovremmo definirci a un tempo socialisti e comunisti e libertari (socialisti rivoluzionari-comunisti liberali) nel senso che riconosciamo quel che di vitale ciascuna di queste posizioni, in sia pure varia misura, contiene. Nel socialismo vediamo la idea forza animatrice di tutto il movimento operaio, la sostanza di ogni reale democrazia, la religione del secolo. Nel comunismo la prima storica applicazione del socialismo, il mito (assai logorato, purtroppo) ma soprattutto la più energica forza rivoluzionaria. Nel libertarismo l’elemento di utopia, di sogno, di prepotente, anche se rozza e primitiva, religione della persona. Affermiamo la necessità di una nuova sintesi, e crediamo che, nei suoi termini essenziali, G.L. si avvii a darla. In  ogni caso ci sembra che nessuno dei vecchi movimenti proletari sia capace, da solo di assolvere ai compiti centrali della lotta contro il fascismo»3.


Non vi sono dubbi che Rosselli non individuasse prioritariamente nei partiti la leva essenziale per la conquista del potere da parte dei lavoratori. Egli fu piuttosto un fautore dei movimenti, formati da forze diverse, variegate, ma unite dal programma comune. Nello stesso articolo, infatti, scriveva:


«La nozione tradizionale di partito è insufficiente, sorda a troppe esigenze che la lotta contro il fascismo, e lo stesso successo fascista, ci hanno rivelate. È una forma politica nuova quella che si dovrà elaborare; e non già a tavolino, ma nell’esperienza del lavoro comune, attraverso la fusione progressiva delle varie frazioni proletarie e il potenziamento di tutti i motivi vitali di opposizone. Il partito unico del proletariato, se vorrà essere una forza rinnovatrice autentica, dovrà essere, più che un partito in senso stretto, una larga forza sociale, una sorta di anticipazione della società futura, di microcosmo sociale, con la sua organizzazione di combattimento, ma anche con la sua vita intellettuale dal respiro ampio e incitatore» (ibidem).


E questa «forza rinnovatrice autentica» egli la stava già costruendo, rafforzando e ampliando il movimento di Giustizia e Libertà. 

La sua idea di socialismo si rifaceva a una visione democratica che ricordava in parte il laburismo inglese.

Riflettendo sull’aspetto umanistico, in qualche modo libertario, e di grande coerenza e spessore morale del pensiero rosselliano, vengono alla mente altre due figure rivoluzionarie che hanno attraversato come meteore l’orizzonte del Novecento: Rosa Luxemburg ed Ernesto Guevara. Non che questi tre personaggi abbiano avuto un percorso politico analogo. Troppo diverse le epoche storiche, i contesti e le posizioni politiche espresse. Ci sono, però, alcuni tratti che li legano strettamente e che li rendono in un certo senso unici.

Innanzitutto l’analoga tragica fine: Rosa, rapita, barbaramente assassinata e poi gettata in un canale il 15 gennaio 1919 a Berlino, durante l’’insurrezione armata spartachista. Il Che, catturato e poi uccisto a sangue freddo il 9 ottobre 1967 a La Higuera in Bolivia, a conclusione del suo fallimentare tentativo guerrigliero.

Li contraddistinguono, però, anche la profonda umanità, la dignità morale, la coerenza nel comportamento e nel pensiero, la ricerca della libertà collettiva, della giustizia sociale e dell’uguaglianza in favore di tutta l’umanità: valori ai quali hanno consacrato la propria vita, fino a sfidare consapevolmente la morte e a trovarla nella lotta.

Pur vivendo in Francia, Rosselli era consapevole d’essere un bersaglio permanente dei servizi segreti fascisti, perché sapeva che Mussolini lo considerava uno dei più pericolosi e acerrimi nemici del fascismo, tanto più dopo la sua partecipazione come combattente nella Guerra civile spagnola4.

Mi permetto ora d’introdurre una variante che non viene mai utilizzata nella ricostruzione e nella ricerca storica: l’uso del se ipotetico. E provo a chiedermi: quale sarebbe stato lo sviluppo umano e politico di Rosselli se non fosse stato trucidato quel 9 giugno 1937?

Egli era convinto che l’abbattimento del regime fascista si sarebbe realizzato con una lotta violenta. E invece avrebbe assistito al crollo del regime sotto il peso dei suoi stessi errori, il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio avrebbe votato la sfiducia a Mussolini, seguìta dal suo arresto per ordine del re Vittorio Emanuele III. Ma prima avrebbe assistito alla votazione delle leggi razziali nel ‘38, la firma del patto Hitler-Stalin nel ‘39, e nello stesso anno lo scoppio della Seconda guerra mondiale, con la successiva entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nel giugno del ‘40, in concomitanza con la resa francese alle truppe naziste e la conseguente invasione tedesca della Francia.

Rosselli era di famiglia ebraica da parte di entrambi i genitori e, dunque, sarebbe stato costretto a restare nella clandestinità per non finire dentro un lager nazista. Subito dopo l’8 settembre sarebbe tornato in Italia, per partecipare alla Resistenza insieme ai suoi compagni di Giustizia e Libertà. Nella realtà, infatti, le brigate cosiddette «gielline» - composte dagli appartenenti a G.L. - furono tra le più attive durante la Resistenza, seconde solo alle brigate «Garibaldi», guidate dai comunisti filosovietici. Avrebbe certamente partecipato nel 1942 alla fondazione del Partito d’Azione, insieme a Emilio Lussu, Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi. E dopo la Liberazione del 25 aprile 945, e la vittoria repubblicana del referendum, sarebbe stato quasi certamente tra i Padri costituenti. Poi...

È un poi che non si può immaginare nel quadro di un suo ipotetico futuro politico, viste le vicende complesse e drammatiche vissute dal socialismo italiano nelle sue varianti partititiche e la fine ingloriosa del Psi, sotto la direzione craxiana, all’inizio degli anni ‘90.

Con la sua forza morale, la tenacia e la tempra da combattente, forse Rosselli sarebbe riuscito a evitare lo scioglimento del Partito d’Azione nel 1947. Forse, chissà...

Non è difficile, però, immaginare le grandi delusioni che avrebbe patito nel dopoguerra, insieme ai molti altri combattenti antifascisti che avevano creduto nella possibilità, da un lato, di costruire un’Italia diversa, socialista, libertaria, non succube della Chiesa cattolica e del suo partito di riferimento; dall’altro, nemmeno succube di un partito stalinista, infeudato all’Urss e guidato da un ex braccio destro di Stalin, il camaleontico Palmiro Togliatti. Questi, riparato all’estero dal 1926 e poi definitivamente stabilitosi a Mosca nel 1934, aveva fatto ritorno in Italia solo 17 anni dopo, per applicare la linea collaborazionista imposta da Stalin ai partito comunisti in Italia e in altri paesi5.

Forse, con Rosselli vivo, le vicende repubblicane sarebbero state un po’ diverse, forse più movimentate; ma difficilmente anche una personalità forte come la sua sarebbe riuscita a non farsi schiacciare tra il Pci e la Democrazia cristiana.

E dunque gloria agli eroi scomparsi nel fiore degli anni - secondo il motto dell’antico Menandro - e per questo rimasti indenni dai compromessi e dalle sconfitte.

A conclusione di questa breve nota, e per rafforzare l’idea che il pensiero di Rosselli, nel dopoguerra, avrebbe potuto stimolare l’emergere di istanze feconde, vale la pena riportare alcuni punti fermi della posizione con cui aveva concluso il suo principale testo teorico. Nell’Appendice a Socialismo liberale scrisse due paginette intitolate «I miei conti col marxismo», nelle quali, tra l’altro, affermava:


«Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale e in secondo luogo trasformazione materiale... Che socialismo senza democrazia è come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori, non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura)»... Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura, e dittatura significa uomini servi... e significa dunque negare i fini primi del socialismo. Che il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura... Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse un’unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale».


Rosselli non fu mai comunista, per lo meno nel senso tradizionale (cioè staliniano e sovietico) del termine; fu un socialista democratico, ma di una stoffa particolare.

Il titolo della sua opera fondamentale non rende l’idea della qualità del suo socialismo, e fu un errore da parte sua perché il termine «liberale» è ambiguo e può rinviare a contenuti liberal-borghesi, sicuramente non corrispondenti al suo pensiero effettivo. Un pensiero che, in ultima analisi, fu certamente eretico e, sotto vari profili, rivoluzionario. Ma «libertario» sarebbe stato un termine più appropriato.


  1. Lev Trotsky, Scritti sull’Italia, Controcorrentre, Roma 1979, pp. 119-24. Ora Massari editore, Bolsena 1990, 2001. Testo inserito ancbhe in questo volume.
  2. Firmato «c.r.», in G.L., 5 giugno 1936.
  3. «Per l’unificazione politica del proletariato italiano. V. Giustizia e Libertà», in G.L., 14 maggio 1937.
  4. Si vedano le varie informative dell’Ovra citate in Carlo Rosselli (a cura di Costanzo Casucci), Scritti dell’esilio, vol. II,  Torino 1992, pp. LXXIX-LXXXII, in nota.
  5. Sulla figura di Togliatti e le gravi responsabilità del Partito comunista si rinvia a Piero Bernocchi-Roberto Massari, C’era una volta il Pci... 70 anni di controstoria in compendio, introduzione di Michele Nobile, Bolsena 2021.


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venerdì 19 dicembre 2025

COS’HANNO IN COMUNE I GAZAWI E I CISGIORDANI?

di Roberto Massari

(17 dicembre 2025)


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Sotto il profilo storico, niente. Sotto il profilo politico, sono stati uniti per circa 13 anni sotto l’egida dell’Anp - per la prima volta nella loro storia - finché si sono separati violentemente nel 2007 (battaglia di Gaza vinta da Hamas contro l’Olp).

Per quante manovre artificiose o dichiarazioni demagogiche si facciano, queste due distinte etnie arabo-palestinesi - le uniche realtà palestinesi non integrate in altri Stati (arabi e non arabi) - non torneranno mai più a unirsi. Almeno non in forma indipendente, giacché l’aggressione di Hamas a Israele ha scavato un solco incolmabile. Basti pensare che l’intero mondo arabo (incluso l’Olp), nonché gran parte del mondo musulmano (Iran escluso), ritiene che Hamas non debba più avere il governo di Gaza e dovrebbe disarmare. Ma poiché parte delle milizie di Hamas è invece ancora presente nel territorio, al momento è impossibile prevedere chi finirà con l’avere la direzione.

Gaza sotto il profilo storico

Ma veniamo alle differenze epocali tra l’antica storia di Gaza e quella recente della Cisgiordania. Gaza (in arabo Madīnat Ghazza) proviene da una storia quasi trimillenaria di occupazioni da parte di popoli stranieri, con prevalenza di periodi di dominio egizio/egiziano fino all’epoca moderna inclusa. Trascurando i più antichi insediamenti, è proprio dagli egizi che si può partire, verso la metà del 2° millennio. Questi rimasero per alcuni secoli, finché arrivarono i filistei (da cui  deriva il nome di «palestinesi»), seguìti dagli assiri, gli israeliti, due volte ancora gli egizi, i babilonesi, i persiani, i greci-macedoni, i seleucidi, i maccabei, gli asmonei, i romani, i bizantini, gli islamici, i crociati, gli ayyubidi (curdo-musulmani), i mongoli, i mamelucchi, gli ottomani, i mandatari britannici (1920-1948).

Finito il Mandato britannico, la Risoluzione 181 dell’Onu stabilì, nel 1947, che anche Gaza avrebbe fatto parte del nuovo Stato palestinese: il secondo Stato che sarebbe dovuto nascere accanto a quello ebraico. Israele accettò la proposta dei due Stati, ma i principali Stati arabi mediorientali - Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq raccolti nella Lega araba (quindi senza Arabia Saudita e Yemen) - la respinsero, aggredirono il neonato Stato d’Israele e impedirono che nascesse lo Stato di Palestina. (Continueranno a impedirlo in successive occasioni, ma di questo ora non parliamo.) Lo fecero perché ciò avrebbe implicato il riconoscimento dello Stato d’Israele, ma soprattutto avrebbe impedito le annessioni territoriali cui essi miravano: l’intera regione palestinese o parti di essa.

L’Egitto, infatti - che all’epoca era la principale forza trainante nel fronte anti-Israele - voleva impadronirsi del territorio di Gaza. Sappiamo che la Lega araba fu sconfitta militarmente, ma con l’armistizio del 1949 l’Egitto riuscì ugualmente a prendersi la Striscia di Gaza, occupandola e installandovi un proprio governo militare (non gazawi). Una tipica occupazione coloniale che durò fino al 1967 quando, dopo l’ulteriore sconfitta nella Guerra dei sei giorni, il posto degli egizianni fu preso da Israele.

La nuova occupazione durò 27 anni, fino al 1994, quando, con gli accordi di Oslo, Israele non solo si ritirò, ma con la forza fece sloggiare anche i propri coloni. E così, per la prima volta nella sua storia trimillenaria, Gaza diventava indipendente, all’interno dell’esordiente Autorità nazionale palestinese.

L’ironia del destino vuole che questa indipendenza sia stata concessa proprio da Israele, per la prima volta e dopo quasi tre millenni di occupazioni straniere.

Un tale indiscutibile merito storico non viene mai citato dai nemici di Israele o dagli amici di Hamas, perché basterebbe da solo a far crollare la pretestuosa accusa di genocidio inventata per il massacro dei gazawi nel corso di una guerra scatenata da Hamas e proseguita fino alla liberazione dell’ultimo ostaggio. Si veda se vi sia nel report di Francesca Albanese un accenno a questo merito storico di Israele nei confronti di Gaza. E dopo forse si guarderà con mente un po’ più lucida al resto del castello di accuse montate in quel testo (del quale Utopia Rossa pubblicò a suo tempo una critica puntuale e a quella rinvio).

Quando Israele concesse l’indipendenza a Gaza, lo fece col consenso di tutte le parti in causa. E se analizzata in termini politici, quella scelta sembrò giusta all’epoca. Ma i termini si rivelarono ben presto tutt’altro che politici e il fanatismo religioso prese il sopravvento: fu infatti per adempiere al presunto mandato di Allah, che richiederebbe lo sterminio degli ebrei, che Hamas compì l’orrenda strage del 7 ottobre 2023 e fece prigionieri gli ostaggi, che in parte morirono poi durante la prigionia. A posteriori è ormai evidente che la motivazione religiosa, genocida e antiebraica, fu il movente principale per l’aggressione di Hamas, per il quale furono sacrificate decine di migliaia di vite umane, e lo stesso Hamas ha finito col perdere il proprio dominio sulla Striscia.

Inutile dire che Israele considera un tragico errore aver concesso l’indipendenza a Gaza e non è disposta a ripeterlo. Cosa accadrà di Gaza è ormai impossibile prevederlo, ma certamente non potrà mai riacquistare l’indipendenza di cui ha goduto dal 1994 al 2023. A meno che Hamas non scompaia dalla scena....

Il periodo successivo al 1994 dovrebbe essere noto anche a chi preferisce ignorare la storia fin qui riassunta. Nelle elezioni del 1996 vinse l’Olp di al-Fatḥ diretto dall’egiziano non palestinese Arafat. Al-Fatḥ vinse anche le elezioni presidenziali del 2005, successive alla morte di Arafat, che furono però boicottate da Hamas. Questa invece vinse nel 2006 le elezioni parlamentari (per il Consiglio legislativo palestinese) e nel 2007 vinse lo scontro armato con l’Olp. Questo fu cacciato dalla Striscia, con reciproche eliminazioni di combattenti e militanti. Iniziavano così - con un golpe militare e la cacciata dell’unica altra etnia arabo-palestinese non ancora integrata in altri Stati  - la dittatura di Hamas e la preparazione per la futura aggressione a Israele.

Cisgiordania sotto il profilo storico

domenica 7 dicembre 2025

IL LIBRO DI SHLOMO SAND

di Roberto Massari


ITALIANO - ENGLISH


Da qualche tempo ho finito di leggere il libro di Shlomo Sand (The invention of the Jewish people) e mi ripromettevo di scrivere una noticina. (Come farò anche per il libro sulla tratta arabo-musulmana.)

Intanto, va detto che ho avuto la conferma come scrissi a suo tempo che C.A., nel citare quel libro, non era andato oltre il titolo. Se poi lo abbia letto dopo le mie critiche, non mi riguarda.

E in realtà, quel titolo è ingannevole: sarebbe dovuto essere «L’invenzione della razza ebraica», perché il fuoco principale della polemica è rivolto contro la storiografia sionista che ha tentato di stabilire una continuità etnica (e addirittura genetica!) tra gli attuali abitanti d’Israele e l’antico popolo israelitico. Allo scopo - e questa è la parte utile e condivisibile del libro - Sand ricostruisce la vicenda delle tre principali etnie ebraiche esistite fuori della Palestina e successive alla sua Diaspora al termine della Guerra giudaica.

[Diaspora sulla quale Sand dice delle sciocchezze negando che essa sia avvenuta dopo la vittoria romana del 70 per il semplice fatto che essa esisteva anche prima. Che essa esistesse anche prima è risaputo e l’ho scritto a mia volta (in molti punti del mio libro su Gesù e i suoi «cugini»), foss’altro perché ne parla il Nuovo Testamento: Paolo (per es. Rm 13: 6-7, che in varie altre lettere fornisce anche i nomi delle principali città - anatoliche e greche - in cui risiedevano forti comunità ebraiche prima del 70); gli Atti degli apostoli, scritti prima del 63; l’Apocalisse - ma dopo il 70 - con le sue 7 Chiese (tutte anatoliche [Ap 1: 4 e 11]) . È però insopportabile il modo in cui Sand toglie credibilità all’opera storica di Flavio Giuseppe che invece - da contemporaneo partecipante - la Diaspora del dopo-70 la descrive, eccome. Per quanto approssimata sia la cifra di un milione di morti ad opera dei romani, basterebbe semplicemente la logica per stabilire che degli ebrei «non-morti», a molti non restò alternativa che scappare, sfuggendo alle stragi e alla schiavizzazione, andando per lo più a rimpinguare la preesistente Diaspora (anatolica, mediterranea, Roma inclusa).]

Ma per tornare alla parte positiva, le tre grandi etnie ebraiche che Sand descrive (sulla scia di un’enorme letteratura dedicata al tema) sono quella dei Berberi in Nordafrica, dei Khazari nel Caucaso e degli Himiariti nello Yemen. Per cui, il risultato finale di Sand - che se ne renda conto o no - è che non solo egli riconosce l’esistenza di un enorme e variegato popolo ebraico, ma che esso è sorto in periodi diversi e in varie e disparate parti del mondo. Lui dice che nel caso dei Khazari ciò è avvenuto solo per conversione degli abitanti, mentre io dico che i due processi - conversione e immigrazione - si sono per forza intrecciati, perché altrimenti non si vedrebbe chi abbia convertito chi. Da non sottovalutare, poi, come si sono intrecciate le storie delle comunità cacciate dal Nordafrica, quelle cacciate dalla Spagna, per non parlare delle mescolanze avvenute all’interno del mondo slavo, le storie di pogrom e così via.

Ma a differenza di Sand, io non dimentico che un ridotto nucleo «originario» è sempre esitito nella stessa Palestina, sopravvissuto anche all’avvento dell’Islam (nel sec. VII) che convertì forzosamente gran parte della popolazione ebraica ivi rimasta.

Sand ipotizza che quegli ebrei convertiti all’Islam siano i progenitori degli attuali arabi palestinesi. Francamente non vedrei argomenti contrari, anche se non saprei che dire al riguardo e lo stesso Sand non offre grandi pezze di appoggio.

Ma l’ipotesi è plausibile (al di là del nome dei palestinesi, trasformazione dell’arcaico «filistei») e sarebbe un argomento in più per consigliare agli attuali palestinesi cisgiordani e agli attuali palestinesi gazawi di entrare a far parte - come due minoranze nazionali distinte - di uno Stato federale israeliano (in cui tra l’altro già vivono in condizioni dignitose i palestinesi israeliani), invece di continuare a vivere in pessime condizioni economiche, scolastiche, sanitarie e sociali sotto dittature politiche i cui dirigenti si sono formati in Unione Sovietica (dall’egiziano.doc Arafat al galileo Abu Mazen) e non in Palestina.

Il popolo ebraico descritto da Sand ha una ricca storia millenaria; è vissuto in zone del mondo tra le più diverse (dal Maghreb al Caucaso al Don); ha nutrito al proprio interno lingue appartenenti a ceppi linguistici tra loro incompatibili (basti solo pensare alle origini germaniche-slavo-serbe dello yddish); ha sviluppato tradizioni di ogni genere (mescolando quelle proprie e quelle delle zone di esistenza); ma ha mantenuto un’unica fede religiosa, benché anche questa sia stata vissuta in modi diversi, ivi compresi atteggiamenti areligiosi ampiamente diffusi. Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni: il vero elemento «omogenizzatore, che ha invece caratterizzato l’insieme del popolo ebraico (in Asia, Africa, Europa e Russia), sono state le persecuzioni antiebraiche. Ma a questo quasi bimillenario elemento unificatore - che per giunta continua in forma aperta in Mediio Oriente e in forma strisciante anche in regimi democratici come l’Italia -  Sand purtroppo non dà l’importanza che merita.

Gli va riconosciuto, però, di aver scritto nella Prefazione: «Non nego il diritto dello Stato d’Israele a esistere» - che ha il suo valore per il fatto di esser detto da uno studioso appartenente all’area degli storici antisionisti dominata da quell'Ilan Pappé divenuto l’idolo di molti moderni adepti dell’antisemitismo/ antiebraismo intellettuale. Proprio per questo citai la dichiarazione di Sand in polemica con C.A. che negava tale diritto apertamente, ma varrebbe per tutti coloro che lo negano implicitamente, rifiutando a Israele il diritto di difendersi dalle aggressioni che ha subìto e continua a subire dal 1948 ad oggi. Fermo restando il diritto di dissentire su quali siano i modi migliori per Israele di difendersi e per portare la pace in tutta l’area mediorientale, escludendo l’Iran, finché lì dominerà il regime più sanguinario e reazionario esistente oggigiorno al mondo.

shalom

Roberto 


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ENGLISH

RED UTOPIA ROJA – Principles / Principios / Princìpi / Principes / Princípios

a) The end does not justify the means, but the means which we use must reflect the essence of the end.

b) Support for the struggle of all peoples against imperialism and/or for their self determination, independently of their political leaderships.

c) For the autonomy and total independence from the political projects of capitalism.

d) The unity of the workers of the world - intellectual and physical workers, without ideological discrimination of any kind (apart from the basics of anti-capitalism, anti-imperialism and of socialism).

e) Fight against political bureaucracies, for direct and councils democracy.

f) Save all life on the Planet, save humanity.

g) For a Red Utopist, cultural work and artistic creation in particular, represent the noblest revolutionary attempt to fight against fear and death. Each creation is an act of love for life, and at the same time a proposal for humanization.

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a) El fin no justifica los medios, y en los medios que empleamos debe estar reflejada la esencia del fin.

b) Apoyo a las luchas de todos los pueblos contra el imperialismo y/o por su autodeterminación, independientemente de sus direcciones políticas.

c) Por la autonomía y la independencia total respecto a los proyectos políticos del capitalismo.

d) Unidad del mundo del trabajo intelectual y físico, sin discriminaciones ideológicas de ningún tipo, fuera de la identidad “anticapitalista, antiimperialista y por el socialismo”.

e) Lucha contra las burocracias políticas, por la democracia directa y consejista.

f) Salvar la vida sobre la Tierra, salvar a la humanidad.

g) Para un Utopista Rojo el trabajo cultural y la creación artística en particular son el más noble intento revolucionario de lucha contra los miedos y la muerte. Toda creación es un acto de amor a la vida, por lo mismo es una propuesta de humanización.

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a) Il fine non giustifica i mezzi, ma nei mezzi che impieghiamo dev’essere riflessa l’essenza del fine.

b) Sostegno alle lotte di tutti i popoli contro l’imperialismo e/o per la loro autodeterminazione, indipendentemente dalle loro direzioni politiche.

c) Per l’autonomia e l’indipendenza totale dai progetti politici del capitalismo.

d) Unità del mondo del lavoro mentale e materiale, senza discriminazioni ideologiche di alcun tipo (a parte le «basi anticapitaliste, antimperialiste e per il socialismo».

e) Lotta contro le burocrazie politiche, per la democrazia diretta e consigliare.

f) Salvare la vita sulla Terra, salvare l’umanità.

g) Per un Utopista Rosso il lavoro culturale e la creazione artistica in particolare rappresentano il più nobile tentativo rivoluzionario per lottare contro le paure e la morte. Ogni creazione è un atto d’amore per la vita, e allo stesso tempo una proposta di umanizzazione.

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a) La fin ne justifie pas les moyens, et dans les moyens que nous utilisons doit apparaître l'essence de la fin projetée.

b) Appui aux luttes de tous les peuples menées contre l'impérialisme et/ou pour leur autodétermination, indépendamment de leurs directions politiques.

c) Pour l'autonomie et la totale indépendance par rapport aux projets politiques du capitalisme.

d) Unité du monde du travail intellectuel et manuel, sans discriminations idéologiques d'aucun type, en dehors de l'identité "anticapitaliste, anti-impérialiste et pour le socialisme".

e) Lutte contre les bureaucraties politiques, et pour la démocratie directe et conseilliste.

f) Sauver la vie sur Terre, sauver l'Humanité.

g) Pour un Utopiste Rouge, le travail culturel, et plus particulièrement la création artistique, représentent la plus noble tentative révolutionnaire pour lutter contre la peur et contre la mort. Toute création est un acte d'amour pour la vie, et en même temps une proposition d'humanisation.

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a) O fim não justifica os médios, e os médios utilizados devem reflectir a essência do fim.

b) Apoio às lutas de todos os povos contra o imperialismo e/ou pela auto-determinação, independentemente das direcções políticas deles.

c) Pela autonomia e a independência respeito total para com os projectos políticos do capitalismo.

d) Unidade do mundo do trabalho intelectual e físico, sem discriminações ideológicas de nenhum tipo, fora da identidade “anti-capitalista, anti-imperialista e pelo socialismo”.

e) Luta contra as burocracias políticas, pela democracia directa e dos conselhos.

f) Salvar a vida na Terra, salvar a humanidade.

g) Para um Utopista Vermelho o trabalho cultural e a criação artística em particular representam os mais nobres tentativos revolucionários por lutar contra os medos e a morte. Cada criação é um ato de amor para com a vida e, no mesmo tempo, uma proposta de humanização.