di Antonella Marazzi
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Nella realtà storica, come è noto, Carlo fu assassinato insieme al fratello Nello, in un agguato eseguito da membri dell’organizzazione di estrema destra - la Cagoule, nata nel 1936 - lungo una strada nei pressi di Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo stava soggiornando per cure termali, a causa di una flebite contratta durante la sua partecipazione alla Guerra civile spagnola. L’ordine di ucciderlo veniva dai servizi segreti fascisti italiani, cioè direttamente da Mussolini.
Dopo la visione del film, mi colpì il fatto che Moravia avesse scritto un romanzo collocato in un preciso contesto storico-politico, pur affrontando altri temi legati soprattutto alla sua visione del degrado morale della borghesia italiana: un tema ricorrente nei suoi romanzi. Documentandomi, scoprii così che il romanzo e il film si erano ispirati alla figura di Carlo Rosselli e che questi era il cugino di Alberto Pincherle Moravia. Infatti la madre di Carlo, Amalia Pincherle era la sorella del padre di Alberto, Carlo Pincherle.
Fu dunque in questo modo, casuale e in un certo senso curioso, che venni a sapere di questa figura che aveva avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’antifascismo italiano. Frequentavo una facoltà scientifica e nella storia studiata al liceo non avevo mai sentito nominare i fratelli Rosselli: un fatto quasi inevitabile, visto il modo affrettato con cui si studiavano, negli anni ‘60, gli eventi storici del Novecento.
Il mio incontro «ufficiale» con Rosselli avvenne invece anni dopo, nel 1979, quando inserii l’articolo sul suo incontro con Trotsky nell’antologia degli Scritti sull’Italia di Trotsky, da me curata1.
Nel tempo, mi sono familiarizzata con l’opera di Carlo e con la sua storia personale e politica. Opera e storia che non possono non colpire, soprattutto alla luce della caratteristica principale di questa personalità: la coerenza costante tra pensiero e azione, nel suo essere stato non solo un teorico e pensatore - oltre che un giornalista brillante e fecondo - ma anche un uomo d’azione, votato a ideali rivoluzionari. Ideali che ha sempre cercato di realizzare concretamente, gettandosi nella lotta ogniqualvolta possibile, e per quanto glielo permettessero le condizioni oggettive in cui fu costretto a vivere: arrestato, processato, inviato al confino e costretto a riparare in Francia dopo una rocambolesca fuga da Lipari insieme a Emilio Lussu e Francesco Fausto Nitti.
Anche il suo pensiero politico ha caratteristiche proprie. Dotato di una formazione marxista, è stato però un critico intransigente di Marx, cui dedica tutto il primo capitolo di Socialismo liberale. Individuò nella teoria marxiana una concezione troppo totalizzante che, a suo parere, non lasciava spazio alla volontà della persona. Riteneva che la marxiana ineluttabilità riguardo al superamento del capitalismo fosse troppo deterministica. Non poteva condividere la prospettiva secondo cui, quando la classe capitalistica avesse assolto completamente alla propria funzione di contribuire al massimo sviluppo delle forze produttive, sarebbe stata sostituita dalla classe che, col proprio sfruttamento, aveva permesso tale sviluppo. Né poteva condividere l’illusione che la classe operaia sarebbe stata in grado di gestire direttamente la fase successiva, quella della transizione al socialismo e poi della costruzione del comunismo, sostituendosi alla borghesia come classe dominante.
Egli riconosceva, però, di essere profondamente debitore verso il pensiero di Marx, come riteneva che lo fosse tutto il socialismo marxista ortodosso e poi socialdemocratico successivo. Sosteneva, però, che gli eventi storici susseguitisi alla morte di Marx (come il fatto che le uniche due rivoluzioni con soviet operai - 1905 e 1917 - si erano realizzate non nella progredita e industrializzata Inghilterra, bensì nella Russia arretrata e ancora semifeudale, con una debole classe operaia) avevano dimostrato l’erroneità delle sue previsioni.
Riteneva, quindi, un fattore inevitabile e positivo il revisionismo introdotto dalla socialdemocrazia tedesca.
La sua posizione, però, era articolata, non definibile come antimarxista. In un articolo del giugno 1936 scrive:
«Noi non abbiamo mai detto di essere anti-marxisti. Abbiamo detto invece l’opposto, riconoscendo nel maggiore umanista dei tempi moderni uno dei nostri maestri. Ancora qualche settimana fa [...] rivendicammo il pensiero autentico di Marx, antistatale e antitotalitario [...]. Quanto più nettamente anti-statale sarebbe stato se si fosse trovato a lottare contro lo Stato borghese dell’agonia, contro lo Stato tirannico, monopolista, totalitario dei nostri giorni. Ma Marx è morto, e in vece sua parlano gli epigoni, che col suo nome sempre sulle labbra ne tradiscono lo spirito essenziale. Sarà uno dei compiti di G.L. di rivendicare il Marx vero, con la stessa spregiudicatezza che egli usò verso i suoi maestri socialisti inglesi e francesi»2.
Riteneva, tuttavia, che la teoria marxista fosse stata superata dagli eventi storico-politici succedutisi alla morte di Marx e si considerava portatore di una nuova idea di socialismo che definiva, appunto liberale. Un socialismo basato soprattutto sul concetto di libertà (non come fatto individuale, ma collettivo), e di giustizia sociale, che guardasse agli interessi di tutti gli strati dei lavoratori. Rifiutava infatti il ruolo che Marx aveva assegnato al proletariato industriale come classe lavoratrice centrale, determinante per il progresso collettivo e la costruzione del comunismo.
Inoltre ,riteneva che nella concezione marxiana non fosse assegnato un ruolo significativo alla volontà umana nel suo progredire verso il superamento del capitalismo, ma che questo fosse indotto inevitabilmente dallo sviluppo stesso delle forze produttive, che avrebbe determinato la fine della funzione progressiva della borghesia in quanto classe e la sua sostituzione con quella operaia. Per Rosselli, invece e come già accennato, la volontà umana era un elemento determinante per la conquista e l’affermazione del socialismo.
Ricorda egli stesso di aver scritto Socialismo liberale al confino di Lipari, di getto e con l’ausilio di pochissimi testi a disposizione. Al suo arrivo in Francia dopo la fuga, nel 1929, l’opera (che era stata trafugata durante il confino da Marion Cave Rosselli, la moglie inglese di Carlo), fu pubblicata in francese. Nello stesso anno, insieme a Emilio Lussu, Francesco Fausto Nitti e altri fuoriusciti italiani, fondò il gruppo di Giustizia e Libertà, cui ben presto si affiancarono le pubblicazioni omonime in forma di Quaderni mensili e poi di Rivista settimanale, sui quali Rosselli scriveva regolarmente. Ne era, di fatto, il direttore, anche se mai ufficialmente. Giustizia e Libertà fu una sorta di figlia politica e culturale prediletta, che egli pose al centro di tutta la propria attività di pensatore e combattente antifascista militante.
Ma che cosa rappresentava di preciso ai suoi occhi questo organismo? In uno dei suoi ultimi scritti pubblicati sulla rivista omonima (nel maggio 1937), un mese pirma di essere assassinato, scrive:
«Certo non è facile definire G.L. in base alla terminologia usuale dei partiti proletari. In base a questa terminologia dovremmo definirci a un tempo socialisti e comunisti e libertari (socialisti rivoluzionari-comunisti liberali) nel senso che riconosciamo quel che di vitale ciascuna di queste posizioni, in sia pure varia misura, contiene. Nel socialismo vediamo la idea forza animatrice di tutto il movimento operaio, la sostanza di ogni reale democrazia, la religione del secolo. Nel comunismo la prima storica applicazione del socialismo, il mito (assai logorato, purtroppo) ma soprattutto la più energica forza rivoluzionaria. Nel libertarismo l’elemento di utopia, di sogno, di prepotente, anche se rozza e primitiva, religione della persona. Affermiamo la necessità di una nuova sintesi, e crediamo che, nei suoi termini essenziali, G.L. si avvii a darla. In ogni caso ci sembra che nessuno dei vecchi movimenti proletari sia capace, da solo di assolvere ai compiti centrali della lotta contro il fascismo»3.
Non vi sono dubbi che Rosselli non individuasse prioritariamente nei partiti la leva essenziale per la conquista del potere da parte dei lavoratori. Egli fu piuttosto un fautore dei movimenti, formati da forze diverse, variegate, ma unite dal programma comune. Nello stesso articolo, infatti, scriveva:
«La nozione tradizionale di partito è insufficiente, sorda a troppe esigenze che la lotta contro il fascismo, e lo stesso successo fascista, ci hanno rivelate. È una forma politica nuova quella che si dovrà elaborare; e non già a tavolino, ma nell’esperienza del lavoro comune, attraverso la fusione progressiva delle varie frazioni proletarie e il potenziamento di tutti i motivi vitali di opposizone. Il partito unico del proletariato, se vorrà essere una forza rinnovatrice autentica, dovrà essere, più che un partito in senso stretto, una larga forza sociale, una sorta di anticipazione della società futura, di microcosmo sociale, con la sua organizzazione di combattimento, ma anche con la sua vita intellettuale dal respiro ampio e incitatore» (ibidem).
E questa «forza rinnovatrice autentica» egli la stava già costruendo, rafforzando e ampliando il movimento di Giustizia e Libertà.
La sua idea di socialismo si rifaceva a una visione democratica che ricordava in parte il laburismo inglese.
Riflettendo sull’aspetto umanistico, in qualche modo libertario, e di grande coerenza e spessore morale del pensiero rosselliano, vengono alla mente altre due figure rivoluzionarie che hanno attraversato come meteore l’orizzonte del Novecento: Rosa Luxemburg ed Ernesto Guevara. Non che questi tre personaggi abbiano avuto un percorso politico analogo. Troppo diverse le epoche storiche, i contesti e le posizioni politiche espresse. Ci sono, però, alcuni tratti che li legano strettamente e che li rendono in un certo senso unici.
Innanzitutto l’analoga tragica fine: Rosa, rapita, barbaramente assassinata e poi gettata in un canale il 15 gennaio 1919 a Berlino, durante l’’insurrezione armata spartachista. Il Che, catturato e poi uccisto a sangue freddo il 9 ottobre 1967 a La Higuera in Bolivia, a conclusione del suo fallimentare tentativo guerrigliero.
Li contraddistinguono, però, anche la profonda umanità, la dignità morale, la coerenza nel comportamento e nel pensiero, la ricerca della libertà collettiva, della giustizia sociale e dell’uguaglianza in favore di tutta l’umanità: valori ai quali hanno consacrato la propria vita, fino a sfidare consapevolmente la morte e a trovarla nella lotta.
Pur vivendo in Francia, Rosselli era consapevole d’essere un bersaglio permanente dei servizi segreti fascisti, perché sapeva che Mussolini lo considerava uno dei più pericolosi e acerrimi nemici del fascismo, tanto più dopo la sua partecipazione come combattente nella Guerra civile spagnola4.
Mi permetto ora d’introdurre una variante che non viene mai utilizzata nella ricostruzione e nella ricerca storica: l’uso del se ipotetico. E provo a chiedermi: quale sarebbe stato lo sviluppo umano e politico di Rosselli se non fosse stato trucidato quel 9 giugno 1937?
Egli era convinto che l’abbattimento del regime fascista si sarebbe realizzato con una lotta violenta. E invece avrebbe assistito al crollo del regime sotto il peso dei suoi stessi errori, il 25 luglio 1943, quando il Gran Consiglio avrebbe votato la sfiducia a Mussolini, seguìta dal suo arresto per ordine del re Vittorio Emanuele III. Ma prima avrebbe assistito alla votazione delle leggi razziali nel ‘38, la firma del patto Hitler-Stalin nel ‘39, e nello stesso anno lo scoppio della Seconda guerra mondiale, con la successiva entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania nel giugno del ‘40, in concomitanza con la resa francese alle truppe naziste e la conseguente invasione tedesca della Francia.
Rosselli era di famiglia ebraica da parte di entrambi i genitori e, dunque, sarebbe stato costretto a restare nella clandestinità per non finire dentro un lager nazista. Subito dopo l’8 settembre sarebbe tornato in Italia, per partecipare alla Resistenza insieme ai suoi compagni di Giustizia e Libertà. Nella realtà, infatti, le brigate cosiddette «gielline» - composte dagli appartenenti a G.L. - furono tra le più attive durante la Resistenza, seconde solo alle brigate «Garibaldi», guidate dai comunisti filosovietici. Avrebbe certamente partecipato nel 1942 alla fondazione del Partito d’Azione, insieme a Emilio Lussu, Ferruccio Parri, Riccardo Lombardi. E dopo la Liberazione del 25 aprile 945, e la vittoria repubblicana del referendum, sarebbe stato quasi certamente tra i Padri costituenti. Poi...
È un poi che non si può immaginare nel quadro di un suo ipotetico futuro politico, viste le vicende complesse e drammatiche vissute dal socialismo italiano nelle sue varianti partititiche e la fine ingloriosa del Psi, sotto la direzione craxiana, all’inizio degli anni ‘90.
Con la sua forza morale, la tenacia e la tempra da combattente, forse Rosselli sarebbe riuscito a evitare lo scioglimento del Partito d’Azione nel 1947. Forse, chissà...
Non è difficile, però, immaginare le grandi delusioni che avrebbe patito nel dopoguerra, insieme ai molti altri combattenti antifascisti che avevano creduto nella possibilità, da un lato, di costruire un’Italia diversa, socialista, libertaria, non succube della Chiesa cattolica e del suo partito di riferimento; dall’altro, nemmeno succube di un partito stalinista, infeudato all’Urss e guidato da un ex braccio destro di Stalin, il camaleontico Palmiro Togliatti. Questi, riparato all’estero dal 1926 e poi definitivamente stabilitosi a Mosca nel 1934, aveva fatto ritorno in Italia solo 17 anni dopo, per applicare la linea collaborazionista imposta da Stalin ai partito comunisti in Italia e in altri paesi5.
Forse, con Rosselli vivo, le vicende repubblicane sarebbero state un po’ diverse, forse più movimentate; ma difficilmente anche una personalità forte come la sua sarebbe riuscita a non farsi schiacciare tra il Pci e la Democrazia cristiana.
E dunque gloria agli eroi scomparsi nel fiore degli anni - secondo il motto dell’antico Menandro - e per questo rimasti indenni dai compromessi e dalle sconfitte.
A conclusione di questa breve nota, e per rafforzare l’idea che il pensiero di Rosselli, nel dopoguerra, avrebbe potuto stimolare l’emergere di istanze feconde, vale la pena riportare alcuni punti fermi della posizione con cui aveva concluso il suo principale testo teorico. Nell’Appendice a Socialismo liberale scrisse due paginette intitolate «I miei conti col marxismo», nelle quali, tra l’altro, affermava:
«Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale e in secondo luogo trasformazione materiale... Che socialismo senza democrazia è come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori, non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura)»... Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura, e dittatura significa uomini servi... e significa dunque negare i fini primi del socialismo. Che il socialismo non si decreta dall’alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura... Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse un’unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale».
Rosselli non fu mai comunista, per lo meno nel senso tradizionale (cioè staliniano e sovietico) del termine; fu un socialista democratico, ma di una stoffa particolare.
Il titolo della sua opera fondamentale non rende l’idea della qualità del suo socialismo, e fu un errore da parte sua perché il termine «liberale» è ambiguo e può rinviare a contenuti liberal-borghesi, sicuramente non corrispondenti al suo pensiero effettivo. Un pensiero che, in ultima analisi, fu certamente eretico e, sotto vari profili, rivoluzionario. Ma «libertario» sarebbe stato un termine più appropriato.
- Lev Trotsky, Scritti sull’Italia, Controcorrentre, Roma 1979, pp. 119-24. Ora Massari editore, Bolsena 1990, 2001. Testo inserito ancbhe in questo volume.
- Firmato «c.r.», in G.L., 5 giugno 1936.
- «Per l’unificazione politica del proletariato italiano. V. Giustizia e Libertà», in G.L., 14 maggio 1937.
- Si vedano le varie informative dell’Ovra citate in Carlo Rosselli (a cura di Costanzo Casucci), Scritti dell’esilio, vol. II, Torino 1992, pp. LXXIX-LXXXII, in nota.
- Sulla figura di Togliatti e le gravi responsabilità del Partito comunista si rinvia a Piero Bernocchi-Roberto Massari, C’era una volta il Pci... 70 anni di controstoria in compendio, introduzione di Michele Nobile, Bolsena 2021.
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